Il decreto lavoro esce dal passaggio parlamentare di conversione con poche modifiche, per quanto attiene alla disciplina “a regime” del contratto a termine.
Restano la riduzione della durata massima da 36 a 24 mesi (riferita sia al singolo contratto, sia alla sommatoria di più contratti) e del numero di proroghe da 5 a 4.
Resta soprattutto la necessità di apporre la causale al singolo contratto che duri più di 12 mesi, alle proroghe che vadano oltre tale limite di durata, nonché ai rinnovi contrattuali quali che siano, anche se non eccedono il termine annuale. In sostanza con il primo contratto a termine, quale che ne sia la durata, il datore di lavoro si “brucia” la possibilità di riassumere a termine lo stesso lavoratore in futuro. Salvo avventurarsi nella formulazione di una causale che, per come congegnata nel decreto, appare come un vero percorso ad ostacoli. A parte infatti la (scontata) causale sostitutiva, le altre ipotesi contemplate nella norma sono da un lato residuali e dall’altro foriere di incertezza e contenzioso. L’estraneità delle esigenze all’ordinaria attività si riferisce a casi del tutto marginali, mentre gli incrementi temporanei dell’attività ordinaria, in quanto «significativi» e «non programmabili», si prestano a valutazioni soggettive e difformi. Senza contare che la causale deve essere specifica («L’atto scritto contiene … la specificazione delle esigenze»), il che potrà aprire la strada a valutazioni di nullità della clausola per genericità, a prescindere dall’esame di merito, come passate esperienze fanno purtroppo prevedere.
A parte l’aggiunta, all’elenco già contenuto nel Dlgs 81/2015, di un’ulteriore ipotesi di esclusione dall’applicazione dell’intera normativa sul contratto a termine (i contratti per la fornitura di lavoro portuale temporaneo di cui alla legge 84/1994), si tratta essenzialmente di modifiche dirette a meglio precisare le conseguenze della violazione delle nuove regole, ovvero il regime sanzionatorio. La prima ipotesi riguarda la stipulazione di un contratto di durata iniziale superiore ai 12 mesi in assenza delle condizioni previste dalla norma, cioè privo di una valida causale. In questo caso il contratto si trasforma in contratto a tempo indeterminato «dalla data di superamento del termine di dodici mesi». La seconda ipotesi attiene alla mancata apposizione di una valida causale al rinnovo del contratto e alle proroghe che portino la durata del contratto stesso ad eccedere i 12 mesi. In questo caso è prevista la trasformazione del contratto a tempo indeterminato senza ulteriori specificazioni, il che fa ritenere che la trasformazione si produca con effetto dal rinnovo o dalla proroga privi della causale richiesta.
Stando alla lettera della norma, il contratto a termine ultrannuale privo di causale non si trasforma in contratto a tempo indeterminato se non al superamento del dodicesimo mese. Quindi un eventuale recesso ante tempus entro i 12 mesi sarebbe un recesso da un contratto non ancora trasformato, che produrrebbe pertanto solo la (ordinaria) conseguenza del pagamento delle retribuzioni sino alla scadenza del termine.
Resta ferma, ovviamente, la sanzione della trasformazione già prevista dal Dlgs 81/2015 per i casi di superamento del limite massimo (ora 24, prima 36 mesi), per effetto di un unico contratto o di una successione di contratti, di proroghe oltre il numero massimo consentito, di violazione degli espressi divieti di ricorso al contratto a termine e di mancato rispetto degli intervalli minimi tra un contratto e l’altro (cosiddetto stop and go).
Vuoi saperne di più su questo argomento? Contattaci tranquillamente per una prima consulenza gratuita!